Judith Butler
Gayatri Chakravorty SpivakMeltemi 2009
€ 13,00
…le studiose gli studiosi di letteratura cosa hanno a che fare con gli stati globali? ...perché noi studiosi di letteratura siamo, è ovvio, attratti dalle parole … lo stato [in minuscolo nel testo] non è il solo luogo del potere. Abbiamo per esempio stati non nazionali e stati di sicurezza che contestano attivamente la base nazionale dello stato … lo stato in cui siamo quando facciamo queste domande può avere o può non avere a che fare con lo stato in cui siamo …che può dopo tutto essere uno stato mentale.Sono le frasi iniziali del discorso fatto da Judith Butler durante il seminario "Sullo Stato Globale" organizzato nel maggio 2007 dall'Università di California a Irvine. Sono le frasi con cui apre il suo intervento, condotto a due voci con Gayatri Chakravorty Spivak, altra filosofa femminista, postcolonialista, americana, di origine indiana.
Sono le parole di un'apertura che discorrerà di stati-nazione/giurisdizioni-extraterritoriali, di condizioni di vita definite da nuove strategie di potere degli stati nazionali, a loro volta ridefinibili dalle vite di chi li attraversa senza diritti.
Judith Butler osserva che quando lo Stato –
…le strutture legali e istituzionali che delimitano un certo territorio – …usando la forza della nazione mette in un certo stato quelli che espelle e sospende nelle garanzie fino a che quello stato diventi uno stato perenne… – …quando questo accade siamo in una situazione densa di potere militare …Certamente sappiamo che la nazione è quel patrimonio condiviso di cultura lingua tradizioni di una popolazione che si dota di confini, attraverso i quali afferma la propria sovranità e, dunque, espelle chi non ci si riconosce o chi non è da riconoscere al proprio a interno. Andando avanti nella lettura allora ci ricordiamo come nel mondo contemporaneo la realtà più evidente sia quella di milioni di persone che cambiano continuamente il loro stato, mentale e politico – oltre che giuridico – a seconda del territorio in cui si trovano a vivere, spesso clandestini, spesso prigionieri in campi che ne disconoscono identità e appartenenza di Stato o nazionale – terroristi tout court – palestinesi senza stato – curdi senza stato – immigrati clandestini senza status, in nome di altri stati che difendendo la propria idea di nazione oltrepassano il proprio confine giuridico e territoriale, espellono dalla protezione legale, creando nuove aree statali e nazionali che però non hanno nessun atto fondativo né costituzionale che li legittimi.
È questo il quadro che si forma leggendo questo
Dov'è finito lo stato nazione? di Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak (titolo orginale:
Chi canta l'inno nazionale?), per Meltemi Edizioni, affascinante e lucida lettura del rapporto tra vite e potere, tra la vita e la dimensione pubblica per il solo tramite della cittadinanza o possibilmente con atti politici.
Dove ha origine questo separare le vite dai loro propri diritti, anche quelli più naturali, come l'esercizio della propria libertà? Dove ha origine questa separatezza tra le vite e le leggi che danno diritti? Tra la polis e chi non ne fa parte? È corretto pensare come fa Agamben in
Homo Sacer alla nuda vita come fosse possibile separare la vita biologica da quella pubblica e politica, soprattutto in un mondo in cui le questioni del corpo sono questioni già dentro la gestione del potere politico? È ancora possibile pensare la polis – come fa Hannah Arendt – come il luogo di chi, per il solo fatto di essere cittadino a pieno titolo, ha nella propria natura la sua libertà da valorizzare nell’agire la vita pubblica, quando il mondo è pieno di clandestini, di persone che non riescono a concludere un percorso da un luogo all'altro ma vengono fermati prima, in uno stato indefinito, fuori della polis? È necessario porre sempre la cittadinanza come vincolo per la libertà?
Che diritto hanno i latinos, di fatto clandestini in terra statunitense, che cantano nel 2006 in California, nelle piazze, l'inno americano in spagnolo, per Bush cantabile solo in inglese? e che affermano: "siamo uguali, questo inno è anche nostro"?
Butler sottopone all'attenzione di tutti, dal centro del suo discorso, tanto da farne titolo del volume, l'atto “eversivo” evidentemente eccentrico, fortemente politico e rivoluzionario, dell'agire comunque, in piazza e non nelle istituzioni, un diritto che non si ha ancora: la propria libertà, la libertà di cantare un inno, di riconoscersi in quell'inno, in quel patrimonio storico e di diritto/di diritti, pur essendo ancora esclusi dalla polis in cui vita naturale e vita biografica combaciano. Possibilmente, combaciano.
Su Youtube si trova un'intervista alla Arendt, fatta negli annio '70, successiva alla crisi del Watergate, che mi sento di segnalare perché molto bella da sentire e vedere: Arendt afferma che gli Stati Uniti d'America non sono uno Stato Nazione perché sono un coagulo di appartenenze diverse che si riconoscono in una costituzione.
Cosa vuol dire veramente questo? In che relazione è con Guantanamo? Come si può sviluppare la lettura comparata di Hannah Arendt e Judith Butler, dalle vite e dall'intelligenza straordinarie?
Dimenticavo di commentare l'interlocutrice privilegiata di questo discorrere: Gayatri Spivak. Postcolonialista, è legata a una lettura più fortemente economica della distribuzione del potere e dei diritti; il suo è leggero contrappunto che pone all'attenzione del pubblico il tema per esempio del regionalismo critico e della disarticolazione di un potere esteso che cerca ancora forme di colonialismo.
Si tratta dunque di un testo molto interessante che anche rappresenta in qualche modo due diversi punti di vista, collocati dentro forme di sapere che discutono e criticano i saperi tradizionali dell'Occidente universalistico, e che anche in Italia separano o articolano la discussione femminista sui rapporti con le donne altre, invitando di conseguenza a uno sguardo diverso sulle donne noi, compresa la rivisitazione degli ambiti propri delle categorie che usiamo: immigrazione, esclusione, nazionalismo, pace, guerra direi io.
m.l.