Fethiye Çetin
Alet, 2007
€ 12,00
Io non mi chiamo Seher… io mi chiamo Heranush. Io non sono turca, io sono armena: mio padre si chiamava Hovannes Gadaryan, mia madre Isguhi. Vivevamo in pace in un villaggio che si chiamava Habab. Avevo due fratellini più piccoli di me, Horen e Hirayr, e mi prendevo cura di loro, e li ho perduti.
Con queste parole nonna Heranush rompe il silenzio a cui è stata costretta per decenni e narra alla nipote Fethiye la sua storia e quella della sua famiglia.
Un giorno sono venuti i gendarmi, e hanno ucciso gli uomini, li hanno sgozzati e gettati nel fiume. Noi donne con i bambini ci hanno mandato in esilio, ci hanno fatto camminare e camminare, e tanti morivano.
Quello che nonna Heranush riporta alla luce, con parole semplici e con la voce rotta dalla commozione, altro non è che il racconto di uno dei crimini più efferati e meno conosciuti del XX secolo, il genocidio del popolo armeno perpetrato dai turchi nel 1915.
Durante la marcia un uomo a cavallo, il comandante dei gendarmi, strappa Heranush alla madre e ai fratelli, per condurla nella sua casa e tenerla come figlia. Da questo momento la bambina, che ha otto anni, si chiamerà Seher.
La stessa sorte toccò a tante ragazze e bambine armene, chiamate popolarmente “i resti della spada”, che rapite durante le marce della morte furono inserite in famiglie turche a volte come spose per i figli, altre come concubine, altre ancora come serve, private del loro passato e di una volontà propria.
A proposito delle sue sofferenze la nonna diceva sempre Che passino quei giorni, e non tornino mai più.
Ad oggi la Turchia non ha riconosciuto il genocidio del popolo armeno.
marinella m.
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